Cùpide lune: il tempo e il racconto.
Sambati e il paesaggio della catastrofe
(1987)
di Rita Selvaggio
Prima, magari molto prima di queste recenti storie di lunazioni, in un tempo che è sempre lo stesso fragile tempo dell’opera – tempo fatto di giorni tenuti fuori dal conto, tenuti stretti fra le dita per sottrarli all’oblio – le superfici dei quadri di Sambati appaiono come infinite distese di bianco, bianco assoluto, a brandelli, senza riposo. Bianco e luce. Una luce ferma e necessaria, smemorata di leggende e indifferente ad ogni nome: pura effusione senz’ombra, senza resistenza. Né erba, né alberi, né animali che possano restituire l’identità umana, solo l’aridità della polvere combusta. Presagi di catastrofe. Sono questi i «Paesaggi con ossa», memorie di fuochi di cui i venti disseminano ora le ceneri. È l’esperienza del deserto, luogo sul quale ci sono stati tanti sguardi ma nessuna traccia di cammino.
Sono carte e segni sovrapposti, impressioni di cose immaginate come distanze: una metrica di corrosione che annuncia notti di Iside e tempi di agonia plenaria con la densità dolorosa e delirante di un grido senza suono. È il sottrarsi del colore, ingoiato dalla sua stessa luce, al suo posto l’impronta che, a sua volta, come tale è destinata a cancellarsi da sola. La traccia: qualcosa che passa davanti all’occhio come apparizione e scomparsa assieme. Il suo godimento non si attarda nella tortuosità della durata, lampo fugace è esaurito dallo sguardo stesso che lo «vede». L’opera è così un corpo oggettivato e poi scalfito, scarnificato, un corpo su cui istanti e pezzetti di carta cadono come foglie, disseminati senza progressione, piuttosto in inquietante deriva, fluttuanti dall’accidentale all’immaginario, senza segni di avvicinamento o di lontananza, in un andirivieni che non trova se non il moto di sé medesimo. Vortici d’acqua e turbini di vento. Eliot, Death by water – «… una corrente sottomarina gli spolpò le ossa in sussurri. Mentre affiorava e affondava…».
Come brevi attese una serie di inizi-aperture-abbreviazioni si inseguono: l’immagine si sottopone così ad un tempo descritto e il senso del racconto vi si insinua. Ma non vi è descritta una storia, non c’è un filo che la conduca; se non c’è uno scorrimento, l’impressione di un passaggio, esso rimane interno ad un proprio raccontarsi, ad una allusività poetica e pittorica. E il materiale della pittura non è ciò che rimanda a qualcos’altro, ma è materia assoluta manifestata nella sua gloria. Una materia che ci narra la fine del ciclo delle stagioni, dell’alternanza tra la vita e la morte, di un universo vuoto dove tutto naufraga verso l’infinità dello spazio.
E di questa vuota evidenza ci racconta la lontananza del volto degli dei. È il paesaggio della catastrofe. Ma un’opera che racconta questo paesaggio è paesaggio essa stessa, ne imita lo stile, è mimesi. È il luogo dove il soggetto si cerca la sua nuova dimora. Non più metafora del deserto, essa diventa il diaframma sul quale il corpo si congiunge con l’aria, l’acqua, la sabbia, la polvere cosmica oppure l’aria, l’acqua, la sabbia si congiungono con il corpo. Un continuo disperdersi nell’atmosfera definitivamente evaporati dalla forma. Hölderlin giovane: «… essere una cosa sola con ciò che vive, in un beato oblio di se stessi» – solo così si può tentare il volo nell’età dei satelliti!
Ora gli acidi corrosivi appaiono decantati in una pacata calma e il bianco si riassorbe in tremore sentimentale e allusivo. C’è più cielo nel deserto e maggiore è la nostalgia del mito, ora. Queste sono storie di astri colti nel loro più assoluto bagliore, sorpresi in un attimo di bellezza mattinale o nell’intervallo di buio segreto quando anche l’ultimo colore si estingue. Fanciulla senile e linfatica, la luna, quest’occhio strabico dei veggenti, vaga scontrosa nel puro spazio del desiderio. Ora lei vorrebbe essere astro, fiore di fuoco e uccello allo stesso tempo e intanto si disperde in una melancholia senza rive. Hölderlin – quando ormai la follia si fu impadronita di lui – «Vorrei essere una cometa? Sì. Poiché esse hanno la rapidità degli uccelli, fioriscono in fuoco e sono in purezza come fanciulli».
Rita Selvaggio
[Da: Arte & Cronaca, Anno II, numero 6/7, Agosto-Ottobre 1987, p. 24]