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Cenni biografici

Romano Sambati nasce nella campagna salentina fra Lequile e Lecce il 22 marzo 1938. È la nostra Primavera hitleriana: a giugno il «messo infernale» visita Firenze e in agosto il governo fascista introduce le leggi razziali. Gli echi della guerra accompagnano un’infanzia dura, avara di cibo materiale e spirituale.

Nel 1957 si diploma all’Istituto d’arte di Lecce e l’anno successivo, con i sentimenti di una speranza tanto grande quanto indefinita, parte per Napoli; la città lo colpisce per la sua vivacità culturale: si iscrive all’Accademia di Belle Arti, dove conosce il genio mite e discreto di Augusto Perez (1929-2000), docente di scultura – sarà il maestro siciliano a influenzare la sua percezione estetica, ancor più che Emilio Greco (1913-1995), di cui pure apprezza il lavoro. Di Perez vede nascere le opere che saranno poi esposte alla Biennale di Venezia nel 1960. Nell’annessa Scuola di nudo, frequentata con assiduità, si cimenta con la complessità del disegno.

Tornato a Lecce nel 1962 diventa docente di discipline pittoriche nel neonato Liceo artistico, costituitosi come sede distaccata dell’Accademia napoletana. Gli anni Sessanta si aprono all’insegna di un connubio faticoso di ricerca artistica e insegnamento, mai tenuti disgiunti; le sue lezioni si segnalano fin da subito per una forte connotazione interdisciplinare, presentandosi anche come riflessione su classici della letteratura e della filosofia. Nonostante l’apprendistato in scultura, constatata la difficoltà di adoprare materiali costosi, decide ‘per ripiego’ di dedicarsi alla pittura: l’essenziale si annuncia in sordina. I suoi primi lavori sono veri e propri tentativi di espressione segnica, con tracce evidenti di quella figuratività allusiva, che nello spirito deve molto al discorso scultoreo di Perez.

Resta sostanzialmente estraneo ai rivolgimenti sia politici che strettamente artistici di quegli anni (il ‘68 e l’avvento dell’Informale, per nominare i più appariscenti), non per pigro conservatorismo, ma per la dedizione totale a una ricerca della propria via all’arte, in un atteggiamento di schietta diffidenza verso il profluvio dei manifesti provinciali e nazionali dell’epoca: in ciò rimane del tutto isolato rispetto alla stragrande maggioranza degli artisti – salentini e non – che decidono, dopo l’avvento della pop art, di “appendere al muro i pennelli”.

Nei primi anni Settanta sperimenta le “morti povere”: nessun riferimento all’Arte povera, ma piuttosto alla morte del povero, quella che si consuma senza pompa magna: il lenzuolo copre la tragedia, per pietà. Questo primo tracciato ancora interlocutorio è interrotto da un incontro drammatico: nel 1976, dopo una personale alla galleria l’Osanna di Nardò, visita la mostra di Rauschenberg al Forte di Belvedere di Firenze: ne resta letteralmente annichilito, tanto da interrompere per circa due anni ogni attività di ricerca. Non lo abbandona la letteratura, fida compagna degli anni, dispensatrice di sorprese e consolazioni rare ma durature: il medico Cechov lenisce le ferite.

Sulla scia del Marx studioso della Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, giunge al De rerum natura di Lucrezio, il cui effetto è simile a quello di Rauschenberg, ma in positivo: chiuso nel silenzio del suo studio in campagna, si consuma in un lavoro lucido e irrequieto, che culmina in una sorta di commento sui generis al poema latino. I lucida carmina lucreziani hanno catalizzato la reazione di forze espressive che premevano per una condensazione linguistica. L’originalità dello stile emergente riscuote ampi consensi: del 1982 è la monografia curata da Antonio Del Guercio, Romano SambatiDa Lucrezio far pittura.

La cifra caratteristica di un linguaggio che sperimenta l’uso di svariati materiali, tutti funzionali alla traduzione poetica della fisica antica, è animata da un rigore ascetico di sottrazione di ogni zavorra retorica, alla ricerca di un «sapere non colpevole, pacifico e creatore, generoso con gli uomini e non distruttore. Un sapere liberato dall’ipoteca degli Dei (e dei potenti)» (R.S.). Permane una tensione di fondo, che è quella del materialismo filosofico del De rerum natura: la promessa di una felicità garantita dal sapere scientifico, ed esente dalle superstizioni religiose e dalle illusioni della passione amorosa, si infrange sullo spettacolo del disfacimento della peste, dopo la quale resterebbe solo l’eternità muta degli atomi, corpora prima et certa: «ci pare che il poema di Lucrezio», scrive Concetto Marchesi, «contenga la ragione cosmica del suicidio di un uomo». Pur sensibile alle ragioni profonde del nichilismo, Sambati accoglie altre sollecitazioni: allontanandosi gradualmente dalla risposta di Lucrezio, mantiene l’urgenza della domanda d’insieme, quella che «contiene l’insieme delle domande» (Blanchot). Opere come Che parole abbiamo noi? e Senza nominazione scaturiscono da questa nuova ulteriorità dell’interrogazione, scandita in un biennio prolifico di lavori (1985-1987), poi confluiti in due mostre, a Lecce e a Roma, con scritti di Lorenzo Mango.

La fase immediatamente postlucreziana si incentra su studi di estenuazione del paesaggio senza umanità: paesaggi con ossaorchestrali di sabbiastrati d’ariasemi nel crepuscolo; con la comparsa del colore si annuncia una delle protagoniste quasi incontrastate delle tele di Sambati: la luna. Les males lunes è il titolo di una mostra tenuta alla Galerie Karghese di Grenoble nel 1991: «Mala luna. Muta e senza opere, pensata dai poeti, gironzola nella storia. Appare e scompare, oltrepassa me come chiunque: uno dei qualsiasi eventi – alito di vento, rotolare di un sasso, sabbia inumidita dall’onda – appartenenze al cosmo» (R.S.). Una di queste lune leopardiane, realizzata nel 1990, si perde nell’oscurità: è il precipitato di un’indagine forsennata sul concetto di buio, cominciata nel 1989 e fatta convergere nella mostra L’eclisse del giorno al Centro d’Arte Telamone di Lecce; indagine durata un paio di anni, di poco posteriore a quella dell’Annottarsi di Alberto Burri, ma la cui complessa consistenza stilistica diverge dalla monocromia del grande autore umbro. La pittura di Sambati non è più pittura, senza per questo diventare informale. È ‘pittura’ che rappresenta con tecniche tutte sue il colore che non c’è più.

Negli anni successivi il processo di essenzializzazione linguistica si rivolge alla figura umana: nascono i disegni su carta del 1992, presentati nel maggio dell’anno successivo in una mostra leccese. Il doppio percorso della scarnificazione del paesaggio e del corpo umano si unifica in un piccolo gruppo di opere del 1994, con la mostra a Santeramo (Bari) intitolata Natura con figure morte.

Sul finire degli anni Novanta Sambati si rivolge all’arte della sua giovinezza, la scultura, ed è colto dal ‘mal d’argilla’ (1998): le mani conservano intatto il magistero napoletano e si confrontano con un altro eccelso poema latino: le Metamorfosi di Ovidio. Dafne, Prometeo, Proserpina e Io, Orfeo ed Euridice, figure di terracotta, concentrano un ricordo trasfigurante della grecità classica, assorbita da uno sguardo che ha conosciuto l’eclisse del mito e del divino e che, pertanto, è sempre più che greco: come più che greca è la rievocazione degli antichi numi in Hölderlin, che lega senza malintesi sincretistici Orfeo e Cristo. La scultura diventa una sorgente autonoma di ispirazione e creazione, che trova una seconda sintesi felice nella mostra Il dolore del mito al Conservatorio Sant’Anna di Lecce (2003), il cui ricavato è devoluto alla Fondazione Italiana Sclerosi Multipla.

Sul finire degli anni Novanta Sambati si volge in maniera più netta ed esplicita al tema del sacro: nel 1997 una sua opera – Prima del giudizio – è premiata alla Prima Triennale d’Arte Sacra dell’Arcidiocesi di Lecce; nel 1999, la sua prospettiva laica e memore della dura lezione di Lucrezio si misura con la Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II. Il frutto di questo dialogo franco e lungimirante costituisce un punto di svolta nella sua poetica, qualcosa che non può essere derubricato a parentesi effimera: Preghiera del fanciulloPreghiera della sposaPreghiera per ‘M’Preghiera del morente. Pensate in forma di nicchia per gli spazi della chiesa di San Nicola a Lequile, sono qui esposte nella primavera del 2000: omaggio alla madre e al suo paese natale, distillano la quintessenza di un sentimento mistico che si nutre di silenzio, e che infierisce su chi ne voglia disquisire, generando balbuzie intellettuale. Lo spirito sublime delle preghiere sambatiane è quello di Celan nella poesia Tenebrae: «Noi siamo vicini, Signore, / vicini, afferrabili. / Afferrati di già Signore, / gli uni all’Altro abbrancati, come fosse / il corpo di ciascuno di noi, / Signore, il tuo corpo. / Prega, Signore, / pregaci, / siamo vicini […]». Sempre nel 2000 l’opera Noli me tangere è segnalata al Concorso Imago Christi di Arquata del Tronto (Ascoli Piceno).

Il duplice suolo pittorico e scultoreo non cessa di portare a maturazione i semi sparsi nelle opere precedenti. Nella mostra Corpi d’ombra del 2004 la salita sulle vette della luce (Luna d’alba) si incrocia con la discesa negli abissi del buio (Dimora); due anni dopo, ancora a Lecce, la Chiesa di San Francesco della Scarpa ospita la personale GeografiePaesaggi a sud del sud, a cura del Museo Castromediano. Divise in tre sezioni – TerraMariCielo –, le Geografie ritmano uno scandaglio metafisico del paesaggio mediterraneo, in seguito al quale l’identità di luoghi ed eventi precisi (OtrantoPorto CesareoGallipoliRiflessi lunari sullo JonioNotte di San Lorenzo…) si attenua a beneficio di tutt’altri non-luoghi. L’intransigente rigore di Notte barocca (2005), con la tipica porta sconnessa nello squilibrio della sua lunetta, intende spazzare via il cliché del barocco, che fagocita da lunghi lustri la ‘cultura del territorio’ promossa nel capoluogo salentino.

Gli anni 2007-2012 riprendono, in un movimento di riflessione a ritroso ma proteso alla originalità figurativa del futuro, lo spazio misterioso delle Preghiere e le figure d’argilla del mito. Il nuovo punto d’approdo è Lacrimae rerum. «Pane e acqua», definisce il suo lavoro. Sottrazione dopo sottrazione, resta non il nulla, non l’inane di Lucrezio, ma l’impotenza paziente di una bellezza difficile che, se pare aver rinunciato a salvare il mondo, si abbandona all’attesa di un altro inizio. Incipit pictura nova.

Emanuele Coppola